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Commemorare una vittima è un dovere. Strumentalizzarla, no. Sergio Ravelli fu ucciso barbaramente il 29 aprile di 50 anni fa, in un periodo segnato da una violenza politica diffusa, folle e contrapposta. Nessuno, oggi, può o deve mettere in discussione il diritto — anzi, il dovere — di ricordare la sua morte. Ma un conto è commemorare un ragazzo vittima dell'odio. Un altro è trasformare quel ricordo in un raduno identitario che richiama, nei simboli, nei gesti e nelle parole, un'epoca buia della nostra storia. Ciò che ieri si è visto non è solo memoria: è ritualità neofascista, è mitologia dell'estrema destra, è costruzione di gruppo, di identità e — quel che è peggio — di potere. C'erano oltre duemila persone. Non quattro nostalgici. Non pochi disadattati. Ma una massa critica, ben organizzata, che sa radicarsi, fare proselitismo e, soprattutto, infiltrarsi nelle istituzioni. E qui sta il vero pericolo. Non nel ricordo, ma nella sua trasformazione in leva politica. Perché quando certi gesti non vengono isolati ma tollerati — o addirittura ammiccati — da chi dovrebbe garantire le regole democratiche, allora il problema non è più la commemorazione. È la connivenza.
2 giorni fa

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